La crisi dell’auto in Italia e nell’Occidente ha provocato l’intervento di un testimone oculare, Luca Montezemolo, che ha passato 70 dei suoi 77 anni di vita in mezzo alle automobili, da rallysta adolescente a team manager della Ferrari mondiale con Niki Lauda a presidente della Fiat e della Ferrari.
Oggi ricorda che nel 2022 fu proprio lui il primo a dichiarare che l’auto italiana non esisteva più, eccetto la Ferrari. La risposta, ricorda, fu “un silenzio tombale da parte dei sindacati, del governo e dell’opposizione”
Luca Montezemolo, ricorda Bianca Carretto, che lo ha intervistato per il Corriere della Sera, è stato per 30 anni nel gruppo, di cui 23 in Ferrari, portandola ai massimi livelli sia sportivi sia commerciali.
Montezemolo e l’auto italiana
Le domande che ora balenano nella mente di Montezemolo sono sicuramente numerose, analoghe al tempo trascorso in quella che lui ha sempre considerato la sua casa, commenta la giornalista.
Montezemolo le dice: “Mi chiedo perché John Elkann non si è opposto a Carlos Tavares, il ceo di Stellantis appena esautorato, quando decise di fare produrre la Fiat 600 in Polonia? Scelta presa quando Mirafiori — come ora — era ferma, con gli operai in cassa di integrazione”.
Non trova una risposta logica, prosegue Bianca Carretto, ricordando anche che “i fornitori italiani sono stati sollecitati, attraversando o una lettera, a investire in Marocco, esaltando le facilitazioni dedicate all’industria automobilistica in quella nazione. Quando, tutto il mondo sa che il nostro Paese è riconosciuto per essere il maggiore produttore di componentistica per veicoli”.
In effetti è sufficiente citare Brembo, Pirelli e Marelli, affiancati da piccole e medie aziende — in tutto sono oltre duemila — capaci di assemblare le parti più complicate di una vettura, anche per le case straniere, grazie alla flessibilità del nostro sistema produttivo.
Montezemolo non sa esprimere altro che malinconia e tristezza per la situazione in cui oggi è coinvolto il gruppo Stellantis, subentrato alla vecchia Fiat.
Elkann e Tavares
Si sente ferito per il rifiuto di John Elkann di non voler riferire in Parlamento, dichiarando di non avere nulla da dire di più di quello raccontato da Tavares, con lui concordato; pare uno schiaffo alle nostre istituzioni, “quando proprio la politica ha concesso tutto al gruppo”.
E ricorda come, ai tempi del governo Conte 2, “era stato fatto un prestito a Fca, poco prima della fusione con Peugeot, di 6,3 miliardi di euro, con impegni precisi, totalmente disattesi. Denaro che lo Stato aveva erogato per difendere il lavoro, invece era stato utilizzato per una divisione di utili pari a 5 miliardi a favore dell’azionista”.
Certo Tavares, scrive Bianca Carretto, ha fatto guadagnare agli azionisti, ossia agli Agnelli/Elkann, più di 23 miliardi di euro in quattro anni: “eseguiva solamente ciò che era utile a loro, sicuramente non all’Italia, per questo il manager portoghese non andava contraddetto. Anzi andava premiato”.
Si può anche comprendere, commenta l’intervistatrice, “perché Tavares — che riceveva uno stipendio annuo di circa 40 milioni di euro — può pretendere, dopo essere stato cacciato, una liquidazione anche superiore ai 100 milioni di euro, è sufficiente saper fare due conti.
A quell’operaio che se lavorasse tutti i giorni prenderebbe non più di 1.800 euro al mese che, con la cassa di integrazione, diventano — a mala pena — 1.100 euro, affiancati da una tredicesima poverissima, possiamo solamente dire che Tavares aveva non solo eliminato i posti di lavoro ma anche ridimensionato i salari.
Ed è normale, conclude l’intervistatrice, che Montezemolo si chieda “perché Elkann non ha mai iniziato a fare il padrone occupandosi, giornalmente, della governance aziendale, l’insieme di regole e principi che disciplinano la gestione e la direzione di una impresa, lasciando campo libero a Tavares?”