Prima del 2011 Aleppo, tappa dell’antica via della seta, era il centro nevralgico industriale e commerciale della Siria. Patrimonio dell’Unesco dal 1986, è una delle città più antiche del mondo, abitata ininterrottamente da oltre cinquemila anni, e simbolo della convivenza secolare tra arabi, armeni, curdi e turcomanni. Quando nel marzo del 2011, sull’onda delle primavere arabe, è scoppiata la rivoluzione contro la dittatura militare che durava da più di quarant’anni, Aleppo non è stata subito in prima linea. Per un anno nella seconda città della Siria non ci sono state grandi proteste né le violenze del regime che si sono abbattute su altri centri del paese. Ma poi, dal luglio del 2012, Aleppo è diventata uno dei principali campi di battaglia di quella che nel frattempo era degenerata in una sanguinosa guerra civile, finendo per essere divisa in due: la parte ovest controllata dal governo e quella orientale dai ribelli.
La battaglia per il controllo della città è durata quattro anni e ha portato a un terribile assedio da parte del regime di Bashar al Assad sostenuto dalle forze aeree russe. I bombardamenti hanno danneggiato i luoghi più importanti della città, come la cittadella risalente al tredicesimo secolo. Gli abitanti sono stati affamati e assetati, lasciati senza un posto sicuro dove rifugiarsi, mentre gli ospedali venivano bombardati senza sosta, come ha denunciato la giornalista siriana Waad al Kateab nel suo sconvolgente documentario Alla mia piccola Sama. Tutto mentre la comunità internazionale guardava impotente, come in una prova generale di quello che succede oggi nella Striscia di Gaza.
Il 23 dicembre 2016 l’esercito di Damasco ha annunciato la riconquista totale della città, ottenuta grazie al sostegno fondamentale di Russia e Iran. In un articolo uscito qualche giorno prima sul sito di Internazionale, Anthony Samrani, condirettore di L’Orient-Le Jour, denunciava il fallimento della comunità internazionale, incapace di proteggere i civili imponendo un cessate il fuoco, e avvertiva: “Non ci sarà da stupirsi se dopo una simile esplosione di violenza, che non rispetta alcuna norma del diritto internazionale umanitario, la Siria rimarrà a lungo il più grande covo di jihadisti al mondo”. La conclusione dell’articolo, riletta oggi, appare profetica: “È il caos attuale che permette ad Assad, più che mai dipendente dai russi e dagli iraniani, di restare attaccato a un’illusione di potere. E finché ci resterà, il caos non cesserà”.
Ed eccoci qua, esattamente otto anni dopo. Non appena il cessate il fuoco in Libano tra Israele e Hezbollah è entrato in vigore, il 27 novembre il gruppo jihadista Hayat Tahrir al Sham (Hts) e i suoi alleati, alcuni dei quali sono sostenuti dalla Turchia, hanno lanciato un’offensiva contro le forze governative nel nordovest della Siria. In tre giorni, senza incontrare grandi resistenze, hanno preso il controllo di Aleppo e poi hanno proseguito in direzione di Hama, più a sud. Il 1 dicembre l’aviazione siriana e quella russa sono intervenute per frenare l’avanzata dei ribelli. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, che ha sede a Londra ma dispone di una vasta rete d’informatori in Siria, in una settimana sono morte più di settecento persone.
L’attacco ha ravvivato il conflitto siriano, congelato da anni, sollevando interrogativi sul futuro del regime di Assad e sugli equilibri della regione. Molte analisi uscite sui giornali di tutto il mondo si chiedono perché i ribelli abbiano deciso di entrare in azione proprio ora. Secondo Pierre Haski “la spiegazione potrebbe essere legata alla guerra condotta da Israele, che ha considerevolmente indebolito Hezbollah e l’influenza iraniana, due elementi chiave del potere di Assad. Il terzo ‘padrino’ del regime siriano, la Russia, ha evidentemente altro a cui pensare”.
I ribelli affermano di voler liberare alcuni territori occupati e di aver risposto all’intensificarsi degli attacchi delle forze governative e dei gruppi di miliziani filo-iraniani. A guidare l’offensiva è il gruppo armato Hts, che fino al 2016 era la costola siriana di Al Qaeda e si è radicato nel territorio, controllando con il pugno di ferro la regione di Idlib, nel nordovest della Siria, ultima roccaforte dei jihadisti e dei ribelli dopo la sconfitta subita per mano del regime e dei suoi alleati. È composto da vari gruppi islamisti sunniti e guidato da Mohammed al Jolani. È noto per gli attentati e i crimini contro i civili e per una visione estremamente conservatrice della società. Per anni il regime ha cercato di riconquistare Idlib, ma ultimamente le violenze si erano attenuate grazie a un cessate il fuoco, ottenuto con la mediazione di Mosca e Ankara, entrato in vigore nel marzo 2020.
Gli uomini dell’Hts sono affiancati da altri gruppi, tra cui l’Esercito siriano libero, formazione ribelle che si oppone ad Assad e può contare sull’appoggio della Turchia. Molti osservatori sostengono che Ankara ha dato il via libera all’offensiva, anche se, sottolineano altri, la Turchia teme le conseguenze di un’escalation in una regione già in ebollizione. Un obiettivo fondamentale di Ankara potrebbe essere ampliare la zona di sicurezza alla sua frontiera dove ricollocare i tre milioni di profughi siriani che si trovano sul suo territorio dopo essere fuggiti dal regime di Damasco. Inoltre potrebbe estendere le aree siriane sotto la sua influenza con lo scopo di indebolire le Unità di protezione popolare (Ypg), le milizie curde considerate affiliate al Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk, classificato come terrorista da Ankara) e che dominano le Forze democratiche siriane (Fds), sostenute da Washington e in controllo del nordest della Siria.
L’Orient-Le Jour riferisce che sul terreno sono riprese le ostilità tra i gruppi filoturchi dell’Esercito siriano libero (che si oppone ad Assad) e le Fds, che sono state costrette ad arretrare. In una riflessione sul sito libanese Daraj, lo scrittore siriano Wael al Sawah conferma che “la questione curda resta centrale”. Secondo lui l’obiettivo principale della Turchia non è “indebolire o salvare Assad o realizzare un cambiamento politico radicale in Siria, ma diminuire, o eliminare completamente, la presenza curda nel nordest della Siria”.
In ogni caso, aggiunge Al Sawah, il “ruolo multiforme” della Turchia nel nord della Siria “riflette il suo equilibrio tra il sostegno alle fazioni dell’opposizione, il confronto con le forze curde e iraniane e la navigazione nella diplomazia regionale”. Con l’evolversi del conflitto, le azioni di Ankara continueranno a plasmare l’equilibrio di potere in Siria, “evidenziando le sue ambizioni più ampie di consolidare l’influenza e proteggere gli interessi nazionali in un panorama geopolitico volatile”.
L’offensiva su Aleppo ha dunque svelato l’illusione della vittoria di Assad dopo la guerra civile siriana e della presa del suo potere sulla Siria. Il regime è riuscito a restare al suo posto solo grazie all’intervento degli alleati russi e iraniani e non ha mai riconquistato tutto il territorio: il nordovest è rimasto in mano ai ribelli e il nordest e i suoi pozzi di petrolio sono ancora sotto il controllo dei curdi. Come scrive Le Monde, Assad “è diventato il re di un paese frammentato ed esangue, privo di risorse e incapace di ricostruire e riprendersi”. La corruzione è endemica e il suo esercito è allo sbando e demoralizzato. Anche se la Siria è stata reintegrata nella Lega araba nel maggio del 2023, Assad non è mai stato disposto a fare concessioni o a collaborare a livello regionale, per esempio controllando il traffico di captagon, una droga prodotta in Siria e diffusa nei paesi vicini, consentendo il ritorno dei profughi siriani o avviando un dialogo politico con l’opposizione, come chiedevano i paesi del Golfo.
Sembra però precipitoso predire la caduta di un regime che può ancora contare sui bombardamenti russi, scrive Anthony Samrani in un’opinione che pubblichiamo nel prossimo numero di Internazionale. Oltre alle mosse della Russia e della Turchia, il regime siriano è appeso anche alle decisioni di Stati Uniti e Israele: “Sono disposti a contribuire a indebolire o addirittura a rovesciare Assad per far uscire la Siria dal girone iraniano?”. Può succedere ancora di tutto, ma Samrani è convinto che “il domino regionale non si fermerà in Siria”. E, come abbiamo visto all’inizio, lui spesso ci azzecca.
Questo testo è tratto dalla newsletter Mediorientale.
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