Un ristretto gruppo di otto Paesi ricchi – Australia, Canada, Israele, Giappone, Nuova Zelanda, Corea del Sud, Regno Unito e Usa – è responsabile della perdita di 212 miliardi di dollari di tasse all’anno. Una fortuna che potrebbe entrare nelle casse pubbliche e invece va in fumo a causa degli abusi fiscali di multinazionali e individui facoltosi consentiti dalle loro legislazioni. Nel complesso, a livello globale, quegli abusi comportano per gli Stati la rinuncia a 492 miliardi di dollari di gettito l’anno: poco meno di 348 per effetto dello spostamento di profitti all’estero per pagare meno imposte e 145 come conseguenza dell’occultamento di ricchezza offshore. Sono i numeri messi in fila da Tax Justice Network nel suo rapporto annuale State of tax justice in vista di un voto cruciale alle Nazioni Unite. Pochi giorni dopo, nonostante il no di quelli che il gruppo di pressione definisce “hurtful eight” (i dannosi otto) più l’Argentina e l’astensione della Ue, 124 Paesi membri dell’Assemblea generale hanno però decretato l’avvio dei negoziati per arrivare a una convenzione quadro sulla tassazione globale come chiesto dal Sud del mondo.
L’obiettivo è arrivare entro la metà del 2027 a una governance che preveda una “giusta allocazione dei diritti di tassazione, inclusa un’equa tassazione delle multinazionali” e affronti “evasione ed elusione fiscale da parte degli individui molto abbienti, assicurando la loro efficace tassazione”. Il primo traguardo sulla carta è stato raggiunto in sede Ocse, il club degli Stati più sviluppati, con la riforma che ha come secondo pilastro l’imposta minima del 15% sui gruppi con oltre 750 milioni di fatturato. Ma l’intesa finale è molto depotenziata rispetto alle ipotesi iniziali. E l’altro pilastro, cioè il diritto per gli Stati in cui i big generano entrate di tassarne almeno una parte, è lettera morta causa mancata ratifica da parte degli Usa: una beffa per i Paesi poveri che speravano di trarne vantaggio. Quanto alla tassazione dei super ricchi, il mese scorso i leader del G20 su input della presidenza brasiliana, che aveva fatto propria la proposta di Gabriel Zucman di una tassa minima globale sui miliardari, hanno preso l’impegno di intervenire per far sì che gli ultra-high-net-worth individuals versino il dovuto. Ma si tratta solo di un primo, timido passo, che rischia di restare sulla carta.
I Paesi del Sud del mondo hanno deciso di tentare un’altra strada, come auspicato dalla Commissione per la riforma della tassazione delle multinazionali (Icrict) di cui è presidente l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz. Di lì la proposta africana di una Convenzione globale, tradotta in una risoluzione passata a larga maggioranza a fine 2023 con il voto contrario di Unione europea e Usa. Lo scorso agosto è arrivata l’approvazione da parte del comitato ad hoc presieduto dal viceministro egiziano Ramy Youssef dei termini di riferimento della convenzione, adottati il 27 novembre dall’assemblea generale. La Ue, Italia compresa, ha mantenuto a novembre la linea dell’astensione con la motivazione ufficiale che il processo mancherebbe di “inclusività” e “trasparenza” oltre a non essere coordinato con i lavori in corso all’Ocse. Ma con un comunicato della presidenza del Consiglio dell’Ue ha avvertito di esser pronta a tornare al no, insieme al blocco dei “dannosi otto”, se le sue preoccupazioni non saranno ascoltate.
La spaccatura tra Nord e Sud globale potrebbe quindi diventare ancora più plateale. A dispetto degli interessi economici dello stesso Nord, come emerge plasticamente dal rapporto State of tax justice: paradossalmente, i membri dell’Ocse sono in termini assoluti quelli a cui gli abusi fiscali infliggono le maggiori perdite. Se il 26% dei 492 miliardi di mancati introiti complessivi è riconducibile alla Gran Bretagna e ai suoi territori satellite, il 36% a territori britannici più Paesi Bassi, Lussemburgo e Svizzera e il 43% agli “hurtful eight”, infatti, il risultato è che i cittadini degli Stati ricchi vedono sfumare risorse che potrebbero essere impiegate per la sanità, l’istruzione, il contrasto alla povertà. Australia, Canada, Israele, Giappone, Nuova Zelanda, Corea del Sud, Regno Unito e Usa, strenui oppositori della convenzione, rinunciano stando ai calcoli di Tax Justice Network a 177 miliardi l’anno sull’altare dei favori a multinazionali e super ricchi.
Se ci si concentra sui 348 miliardi di gettito perso dalle sole multinazionali, il 73% secondo il rapporto dipende da paradisi fiscali con un’aliquota fiscale effettiva inferiore al 10% “come il Regno Unito, le Isole Cayman, Singapore, Paesi Bassi, Hong Kong, Lussemburgo, Porto Rico e Jersey“. Paesi che si accontentato di raccogliere “solo 50 miliardi di dollari di entrate fiscali aggiuntive sui profitti trasferiti lì dalle grandi multinazionali”. Ne deriva un “enorme trasferimento di ricchezza dalle persone e dai lavoratori di tutto il mondo ai giganti aziendali e ai loro azionisti, tra le famiglie più ricche del mondo”.
Per invertire la rotta, la ong raccomanda a livello nazionale l’adozione di tasse sugli extraprofitti e tasse sulla ricchezza con cui frenare potere monopolistico e disuguaglianze. A livello globale considera la convenzione Onu la migliore opzione per arrivare a norme internazionali che possano davvero frenare gli abusi fiscali transfrontalieri e garantire che l’imposizione progressiva nazionale sia effettivamente applicata. Cruciale che preveda lo scambio automatico di informazioni tra Paesi su tutti i patrimoni detenuti dai contribuenti – il Common reporting standard dell’Ocse ha migliorato il quadro ma senza mettere davvero fine al segreto bancario -, la creazione di registri pubblici dei titolari effettivi di ogni società, trust e fondazione e report pubblici sulle tasse pagate dalle multinazionali nei vari Paesi. Il prossimo appuntamento sarà al Palazzo di Vetro, a febbraio, per stabilire le regole che il comitato ad hoc dovrà seguire nella conduzione dei lavori. Poi sono previste almeno tre sessioni di discussione all’anno, a New York e Nairobi.